giovedì 5 novembre 2015

Maggio 1923

Dopo sette anni ho rivisto quei luoghi e rivissuto nella commozione dei ricordi le ore indimenticabili della trincea e dell’assalto su quella quota 174 che vede Gorizia adagiata ai suoi piedi quasi in atto umile di riconoscenza e di amore. Ho veduto, sebbene alterata un po’ dalla nuova vegetazione, la trincea più alta conquistata sanguinosamente il 12 Agosto e da cui balzammo due giorni dopo per un il supremo cimento; ho rivisto tutti i miei compagni superstiti, ho riavuto nella faccia l’alito della battaglia come quel giorno; ho pianto tutti i miei Compagni caduti, ho sentito quanto meschini noi siamo dinanzi a tanta grandezza e a tanta sventura e mi sono inginocchiato! Sì, la quiete solenne del luogo, la poesia della morte e della gloria, comandano la preghiera! Ho raccolto sull’altura sacra, proprio nel trincerane contrastato i cimeli delle battaglie e li conserverò come reliquie. Sul cippo che ricorda il sacrificio eroico di tanti nostri soldati ho deposta le ossa sacre degli Ignoti che ho raccolte sparse ancora d’intorno ed ho pensato a quei giorni della battaglia ormai lontani, ma sempre vivi nel ricordo insopprimibile di che li ha vissuti. Ho sentito quanto bene abbia fatto a tornar da solo, con due fedeli compagni, sulla terra del nostro sacrificio, dove, se abbiamo sofferto, abbiamo anche vissuto l’intensa vita della passione, dove prima di vincere il nemico abbiamo vinto noi stessi con la dedizione suprema! Ho raccolto con le mie mani la terra sacra che il sangue ha nutrito, la terra che mi è sembrata mia più di qualunque altra cosa che mi appartenga, e l’ho portata con me per un altro rito d’ amore e di pietà. FINE

---7°---

---6--- Per il giorno 14 Agosto era stato ordinato l’attacco della seconda linea nemica antistante. Nei giorni scorsi avevamo ricevuto qualche tavoletta di cioccolata, ma una distribuzione regolare di viveri ci era mancata fino al giorno 7 Agosto. Al mattino del 14 furono distribuite delle pagnotte e della carne portata lassù con le casse di cottura, assicurate sulle groppe dei muli, e un’abbondante quantità di marsala. Chi ha combattuto sa che queste inusitate e copiose distribuzioni di viveri e specialmente in liquori, preludevano gli imminenti assalti! L’attacco dovevasi iniziare verso le 13. Intanto provvedemmo a riorganizzare i reparti privi di Comandanti fino dal giorno 12. Nel frattempo era giunto in linea un altro Reggimento (mi sembra il 206°) che doveva operare col nostro, il quale decimato dalle forti perdite subite, non aveva di Reggimento che il nome, essendo, di fatto, ridotto a poche Compagnie. Specialmente gli Ufficiali scarseggiavano. Un’ora prima dell’attacco il Capitano De Simone, già Comandante dell’11° e che in mancanza di Ufficiale superiore dovette per la circostanza assumere il comando del nostro battaglione, riunì i pochi Ufficiali superstiti a rapporto. Mi ricordo, come se ora lo avessi davanti, il tracciato che egli fece per spiegarci graficamente il nostro obiettivo. Dovevamo iniziare l’attacco frontale e tentare di sorprendere il nemico nelle sue posizioni (ciò che era da ritenersi impossibile perché gli Austriaci li avevamo vigili davanti alla nostra linea, forse a 50 metri). In ogni modo, se scoperti, il compito nostro diveniva quello di attirare su noi, col nostro movimento audace, il maggior fuoco possibile e permettere così agli altri reparti di avanzare alle ali di sorpresa. Non v’è chi non veda la gravità del compito affidato ai superstiti del 97°. Il Capitano De Simone, che non ci dissimulò le sue preoccupazioni, ci invitò a parlare ai nostri soldati per prepararli, nel miglior modo, all’ardua impresa. Io pure li riunii e dissi loro, come realmente credevo, che tanto maggiore fosse stato l’impeto dell’assalto, tante meno perdite avremmo avuto. Del resto conclusi, voi non avete che un solo dovere: quello di seguire il vostro Capitano e me dunque. E questo dovere, essi, poveri e bravi ragazzi, lo assolsero tutti. Molti anzi s’inchiodarono su quel cammino e non tornarono indietro nemmeno quando venne l’ordine di ritirata! Povero Nardi, buono e fedele soldato del mio Plotone, come mi ricordo di te, quando, pure angustiato certo dall’estremo pensiero dei tuoi bimbi, di cui mi parlavi spesso commosso, mi dicesti nel tuo dolce dialetto veneto “Sig. Tenente, dove va lei verremo noi!” E cadde. E tanti e tanti altri così. L’ora scoccò. L’azione doveva svolgersi simultanea con i reparti fiancheggianti e perciò, prima di balzare dalla trincea, attendemmo che essi movessero nei camminamenti laterali. Le nostre artiglierie che avevano sviluppato a pochi momenti prima un violento fuoco si erano acquietate. Il nemico pure sembrava che riposasse; forse intuiva la nostra azione e si organizzava alla resistenza, in silenzio. L’ordine venne: Avanti! La mia Compagnia costituiva la prima ondata. Io seguivo il mio Capitano. I soldati, dietro di noi, balzarono sulla trincea e la superarono. Ci trovammo così allo scoperto. Alcuni cadaveri erano ancora su quel terreno, intercorrente fra la nostra e la posizione austriaca, fino dal combattimento del 12, quasi ad attenderci! Strisciammo al loro fianco e seguitammo ad avanzare silenziosamente, carponi, con la baionetta inastata e muniti ciascuno di almeno due bombe a mano. La trincea nemica sembrava deserta, ma non tardò ad animarsi! Volle certo il nemico che il nostro schieramento fosse completo prima di iniziare il fuoco. Ad un tratto una grandine di proiettili e raffiche di mitragliatrici c’investirono in pieno, e, sebbene fossimo a terra, molti gridi strazianti indicavano che gli austriaci, dalla loro comoda trincea, colpivano nel segno “Oh mamma mia!” era per molti, il grido dello spasimo mortale e l’estremo tenero saluto invocante! Vinto il primo inevitabile turbamento, continuammo ad avanzare. V’era in noi tutti, ormai, il desiderio smanioso di balzare avanti, sia pure incontro alla morte certa, ma con la baionetta nel pugno nel fervore della mischia, piuttosto che indugiare si quel terreno che si copriva di cadaveri ad ogni passo, inutilmente. La situazione diveniva di attimo in attimo più tragica. Avevo accanto a me, alla mia destra, un soldato d’altra Compagnia. Non lo conoscevo. Una pallottola gli forò l’elmetto proprio nel mezzo. Un rivolo di sangue gli colò dalla fronte. Il povero fante che era carponi come tutti, ebbe un impercettibile moto in avanti e sbarrò gli occhi nella morte. Non lo dimenticherò mai più. Istintivamente volsi il capo un po’ A sinistra e mi accomodai meglio l’elmetto. (Perché non credere a un intervento provvidenziale se solo a quel moto semplice e istintivo e a quello spostamento dell’elmetto di pochi millimetri io devo la vita?) Nel momento stesso fui colpito io pure alla testa. Ebbi la sensazione di un urto formidabile, poi mi sembrò che un’onda calda mi sommergesse; rammento vagamente di essere stato trascinato, rotolato quasi nella trincea di partenza, ché un attimo d’indugio su quel terreno scoperto, poteva essere fatale per coloro che mi trasportavano e per me. Riconobbi tra quelli il soldato Landi, attendente del mio Capitano. Mi dissero poi, che, ferito, gridavo: Viva l’Italia! ciò è probabile, ma non lo ricordo. Ebbi la prima affrettata medicazione in trincea, poi al posto di medicazione, quindi fui trasportato all’ospedale di Gorizia, a Cormons (all’Ospedaletto della Croce Rossa n. 11), dove giunsi, quasi in istato d’incoscienza, la sera stessa del 14 Agosto 1916. Feriti gravemente rimasero pure, dopo di me, il mio Capitano, il Capitano De Simone ed altri. Il reparto rimasto così senza Ufficiali e bersagliato spietatamente, ebbero infine l’ordine di ritirarsi: Ahimè! Quelli che lo poterono furono pochi!

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La notte del 12 si sferrarono violentissimi contrattacchi nemici, ma la posizione fu tenuta. Innanzi non s’aveva neppure un filo di reticolato od altra difesa accessoria Per queste azioni, al 97° Fanteria venne decretata di motu proprio di S.M. il Re la Medaglia d’Argento al valor militare. Tutto il giorno 13, era di domenica, si passò sulla quota 174 ovest disturbati dall’incessante fuoco di numerose mitragliatrici e dai tiri dell’artiglieria nemica. Ed ancora la notte stessa i nemici ritornarono varie volte in violenti contrattacchi, ma la posizione fu sempre tenuta. Mi ricordo, in quelle due notti, che un lanciabombe piazzato nelle antistanti posizioni nemiche, non si stancava mai di lanciare i suoi proiettili verso di noi., C’era evidente la intenzione di battere la nostra trincea, ma il tiro essendo troppo lungo, le bombe, la cui lenta traiettoria si seguiva benissimo nel cielo limpido e stellato, andavano a esplodere nelle seconde linee occupate da truppe di rincalzo che riposavano! Sebbene la notte fosse chiara, il nemico lanciava ogni tanto nel cielo dei razzi luminosi, i quali cadendo poi con estrema lentezza, rischiaravano tutto intorno, dando così modo al nemico vigile di ben esplorare le nostre posizioni e meglio dirigere i propri tiri. Allora si comandava ai reparti di togliere le baionette per evitare che luccicassero, e le truppe si irrigidivano nelle posizioni per sfuggire con l’immobilità, il più possibile, a quell’occhio omicida il cui raggio scrutatore, falso e insidioso, scendeva dall’alto come un riflesso lunare calmo e sereno. Subito dopo si scatenava la tempesta. Le mitragliatrici, le bombe e la fucileria nemica si accanivano contro di noi ed i nostri allora, temendo un nuovo contrattacco, si apprestavano a contenerlo e respingerlo. Anche le nostre due mitragliatrici, piazzate alla sommità della trincea, vomitavano fuoco. Poi tutto, per qualche tempo, ritornava nella calma. In simili alternative passammo tutta la notte. Ad ogni poco dalle alture nemiche partivano grossi calibri, la cui scia ben si distingueva nel cielo e con un rumore simile a uno strano rotolio di botti od al brontolio di un tuono in lontananza andavano a cadere dietro le nostre spalle, su Gorizia che ardeva sempre di fiamme e di passione. Dal Sabotino e dal Podgora, le nostre artiglierie rispondevano senza tregua.

domenica 3 aprile 2011

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Gorizia era un inferno! Da tutte le alture circostanti ancora ancora occupate dal nemico, piovevano sulla città martoriata proiettili di grosso calibro che scoppiavano seminando rovina e morte. Le strade erano percorse da truppe di rincalzo che si avviavano ad alimentare la battaglia. Cadaveri dappertutto: molti orribilmente mutilati.
Effettuata la consegna dei prigionieri ad un Ufficiale addetto, e lasciato momentaneamente il comando della scorta al S.Tenente Capuis (che più non ritrovai) corsi al prossimo punto telefonico per avere dal mio Comando di Brigata indicazioni precise circa la località dove avrei dovuto ricondurre questo piccolo reparto a cui si erano aggiunti alcuni militari dispersi di altri Reggimenti. Ciò necessitava far conoscere, perché nel frattempo, potevano essersi vetrificati spostamenti di linea. Mentre stavo telefonando, uno shrapnel scoppiò in mezzo alla vi; alcune pallette infransero i vetri d'una finestra e andarono a conficcarsi nella parete.
L'ordine mi fu trasmesso (comunicazione drammatica e più volte interrotta). Mi si ingiungeva inoltre, sotto la mia personale responsabilità, di ricondurre in linea, e con qualunque mezzo, quanti militari dispersi incontrassi.
Feci quello che potei, dopo varie peripizie, attraversando una zona battuta da un violento fuoco di sbarramento, giunsi con una cinquantina di uomini, di cui una buona parte rastrellati, nella posizione conquistasta al mattino, dove ancora fervevano lavori per il rafforzamento. Rivedendoci incolumi dopo la battaglia, il Capitano ed io ci abbracciammo commossi.
Il mio attendente che era venuto con la scorta prigionieri a Gorizia, mentre mi seguiva di corsa al posto telefonico fu colpito da una scheggia di granata alla mano destra e, assai gravemente ferito,fu ricoverato all'Ospedale. Io non mi accorsi della sua assenza se non quando giungemmo in trincea e solo più tardi seppi della sua ferita.
Nel pomeriggio del 12 stesso,doèpo aver respinto ancora contrattaccho nemici e riordinati il più possibile i reparti, fu provveduto al rafforzamento del terreno sistemando opportunamente le mitragliatrici. Provedemmo inoltre a sgombrare il trincerone dai cadaverinemici. Legati per i piedi con una corda, si trascinavano fino all'orlo di una boscaglia scoscesa in cui si precipitavano. Operazione lugubre ma necessaria, perché lì dovevamo stare almeno una notte. Anche i nostri Morti furono tolti ed appartaticoprendoli ciascuno con una mantellina o con altri Loro indumenti
Ho già detto che molte e dolorose furono le nostre perdite, sebbene il nemico avesse la peggio. Dei dodici Comandanti di Compagnia, cinque erano morti sul campo: Capitano Marotta, Capitano De Paola, Capitano Cesarini, Capitano Comparato, Tenente FFrisoli e due erano rimasti feriti: Capitano Fresco e Capitano Rizzo. L'unico Maggiore Comandante di Battaglione Cav. Angiono fu ferito gravemente al capo. E così in proporzione si ebbero perdite nei subalterni nei graduati e nella truppa.
Della mia compagnia cadde, gravemente colpito al petto, il mio compagno di tenda a Villafranca Padfovana, S.Tenente Gino Coen
[ "Coen Gino (1885-1917) Livornese appartenente a famiglia ebraica (figlio di Dario), era nato a Pisa il6 novembre 1885. Morì il 16 agosto 1917 a Gorizia nella 48° sezione sanitaria) per ferite riportate in combattimento. Sottotenente del 97° Regg. Fanteria, già proposto per la Medaglia d'Argento, venne decorato con Medaglia di Bronzo al Valor Militare" da Livorno nella Grande Guerra di Carlo Adorni-Ed. IL QUADRIFOGLIO-pag. 265] Trasportato a Gorizia all’Ospedale “Fate bene Fratelli” vi morì il giorno 16. Era livornese e insieme spesso avevamo ricordato nostalgicamente la nostra città. Fra i dispersi vi furono i S.Tenenti Palazzuoli, Bevilacqua, Lemmi, Lippetti e Curti. Questi tre ultimi caduti feriti nelle mani del nemico. Della sorte del povero Bevilacqua non si seppe mai nulla di preciso: si crede che rimanesse colpito in pieno da una bomba. E tanti e tanti altri, superiori e colleghi cari, inferiori devoti e affezionati si immolarono in quel giorno. Allora non li piangemmo: l’urgenza della battaglia non ce lo consentiva; e poi tutti eravamo come trasfigurati. La Morte non ci appariva quel giorno nel suo aspetto funereo e pauroso; l’avevamo tragica sul nostro capo sempre,eppure non ci sgomentava. E’ una sensazione questa, strana, incomprensibile oggi anche a chi l’ha provata allora. Forse perché veder morire era cosa di tutti i momenti, forse perché noi stessi si viveva in un’atmosfera di morte. Ci sembrava, dico,che l’abisso fra “l’essere e il non essere” com’è nella concezione normale,si annullasse quasi, e ben poca differenza passasse fra noi, viventi come in un sogno tragico, aggrappati alla terra infida, e quei nostri Compagni immobili per sempre, ma come noi proni sulla trincea, quasi in attesa di un attacco supremo per balzare di nuovo all’assalto!

sabato 26 marzo 2011

All'alba del giorno 12 agosto

All'alba del giorno 12 Agosto, triste e glorioso, era stato deciso l'attacco a fondo della quota 174 Ovest. mi piace ricordare che ciascuno di noi, pur non dissimulandosi la gravità del compito, era animato dal più grnde entusiasmo; e quando venne l'ordine di attacco, i nostri bravi soldati, in gran parte reduci dalla Libia e già provati dai disagi e dai pericoli dei giorni precedenti, balzarono come un sol uomodalle posizioni, slanciandosi al seguito dei prpri Ufficiali. Si urlava "Savoia, avanti" sebbene tale grido di guerra non fosse più voluto negli assalti, che dovevano invece sorprendere il nemico improvvisie violenti. Ma l'entusiasmo non si comprime facilmentee d'altronde gli austriaci non ignoravano certo la nostra azione, sia già perchè si svolgeva di giorno sotto i nostri occhi vigili. Ho sempre, e lo conserverò gelosamenteun fazzoletto tricolore che ebbi, dolce e grato ricordo, una sera, prima della partenza per il fronte al Politeama Livornese in cui sirappresentava i" Il Tessitore" Allora lo agitavo al suono degli inni patriottici, ol 12 Agosto lo sventolai davanti ai miei soldati tutti meravigliosamente impetuosi dinanzi alla mischia imminente.
Superate le fasce esterne dei reticolati nemici e la prima linea dei trinceramenti, ci trovammo a contatto con diversi nuclei appostati nel bosco, tra la prima e la seconda linea nemica. L'urto fu tremendo, indescrivibile. La baionetta lavorava e mi ricordordo che, certo Tortori fiorentino, vantava le sue prodezze facendomi balenare la sua baionetta arrossata, instancabile! Molti dei nostri cadevano e pure l'impeto della battagia cresceva. Scoppiavano di tratto in tratto le bombe a mano e diradavano la mischia, la sedavano quasi; poi l'urto riprendeva violento e terribile.
Ad un certo momento un centinaio di austriaci sbucarono improvvisi dal bosco, quasi a tagliarci la strada: Ma l'assalto irruento li aveva demoralizzati. "Arrendetevi" gridai. Gli uomini del mio Plotone li aggirarono intimando loro di alzar le braccia e gettare le armi. Si arresero. Su quelle povere facce c'erano i segni di una lunga sofferenza e di una stanchezza infinita; negli occhi spaventosamente dilatati, impresso un terrore folle che non dimenticherò: Alcuni di essi erano feriti. Mi ricordo di un Sott'Ufficiale austriaco a cui una scheggia di granata aveva prodotto una ferita orrenda alla faccia; la bocca non era più che un'apertura informe, sanguinolenta, orribile a vedersi: eppure il disgraziato camminava ancora. Lo feci al prossimo posto di medicazione unitamente ad un altro ferito all'addome, in condizioni gravi.
Devo confessare che non tutti i miei soldati mostrarono verso i nemici quel contegno che si deve ai prigionieri di guerra. Alcuni dei nostri, ancora eccitati dall'orrore della mischia, li insultavano, ed avrebbero certo trasceso se non avessi, con la disciplina, recisamente imposto a tutti quel rispetto dovuto ai nemici vinti ed inermi.
I prigionieri furono inquadrati; io stesso presi il comando della colonna, e, con pochi uomini di scorta, ci avviammo al prossimo posto di concentrazione.
Intanto la battaglia infuriava, e se molte e dolorose furono le nostre perdite, l'esito della giornata fu a noifavorevole, perché il trincerone fu conquistato. Reparti del 1° Battaglione, comandati dal valoroso Maggiore Angiono, riuscirono riuscirono anzi ad oltrepassarlo tentando di impadronirsidi una linea di trincee avanzate; ma furono respinti sanguinosamente: Avemmo in questa azione sfortunata le maggiori perdite. Anche il nemico lasciò sul terreno numerosi morti.
Ai prigionieri fatti dal mio Plotone si unirono altri, che incontrammo nella discesa, comandati dal S.Tenente Capuis. la colonna risultò quindi di circa 150 prigionieri di cui io presi il comando come Ufficiale più anziano.

venerdì 25 aprile 2008

- 3° -

Dal giorno 9 eravamo quasi digiuni perché i rifornimenti non giungevano e le poche provviste in viveri di riserva erano quasi esaurite. La sete poi ci tormentava. Ma ciò che maggiormente influiva sulla spossatezza delle nostre truppe, più che i disagi, la mancanza assoluta di riposo: Fino dalla notte del 7 Agosto non avevamo chiuso occhio e pure dovevamo apprestarci a più gravi cimenti. Il riposo ed il sonno, dopo un lungo, dopo un lungo periodo di disagi, sono tali necessità per il nostro corpo che superano ogni bisogno, vincono ogni altro sentimento. La fame e la sete si possono sopportare a lungo, ma il bisogno di riposo si impone ai nostri sensi anche se il pericolo ci incalza o ci sovrasta. E' inflessibile. Tutti i combattenti lo sanno.
Nei fugaci momenti di tregua ciascuno riconosceva se stesso nel volto dei compagni: barbe lunghe e incolte, occhi un po' dilatatai con lo sguardo incerto come errante in una visione lontana, fuggevole e, diffuso sulle guance, quel pallore caratteristico della lunga stanchezza senza ristoro.
Mi ricordo che per una notte dovemmo sostare per una notte in un campo di lino, nei pressi di una villa abbandonata: ero col mio Plotone distaccato dalla Compagnia che dovevo raggiungere, secondo gli ordini, all'alba su una altura circostante. Del mio Battaglione era con me il S. Tenente Casali Ufficiale Zappatore, col suo reparto. Il nemico non dava tregua, ma
la stanchezza si appesantì su noi e nessuno pensò di muoversi sebbene sul nostro capo miagolassero le pallottole, ininterrottamente. Al mio fianco era cone sempre il mio attendente Giuseppe Vanni, fedelissimo. Pur avendo coscienza del pericolo, nessuno volle nè potè privarsi di quel po' di riposo! Se dovessi anzi dire la impressione provata in quei momenti, oserei affermare che quell'intenso fuoco di fucileria, tanto vicino alle nostre teste da radere gli arbusti in cui eravamo affondati, ci dava quasi soltanto un senso di molestia, perché ci disturbava nel sonno!
La sera dell'11 una nostra sezione di bombarde, con tiri metodici e precisi,aveva in parte smantellato un trincerone blindato austriaco che scorgevasi benissimo sulla quota 174. Ci fu, la sera stessa, gran rapporto di tutti gli Ufficiali del 97°. il Colonnello Brigadiere Arturo Nigra, che aveva il comando dell'azione, parlò conciso e rudemente concluse così: "Hanno veduto quel trincerone? Stanotte, o domani all'alba, dev'essere nostro. A qualunque costo, m'intendono?!" Parole crude queste, che chi le udì quella sera, in mezzo all'oscurità di quel bosco infido, non le dimenticherà più mai. Si comprese da tutti che era un grave cimento poiché noi occupavamo una quota fronteggiante le ben munite posizioni del nemico; dovevamo perciò discenderla allo scoperto ed aggrapparci alle pendici opposte della quota 174 Ovest, da cui gli austriaci dominavano. Mi ricordo, come ora, che vidi, e pur troppo per l'ultima volta, l'amico mio S. Tenente Canessa del 2° Battaglione, seduto a terra, appoggiato ad un tronco d'albero. "Carlino come va?" gli dissi "ritorneremo a Livorno?" Mi rispose ciò che anch'io in quel momento pensavo "Sarà difficile!" Fu profeta per sé: poche ore dopo cadde all'assalto nelle linee nemiche e nemmeno le sue ossa poterono ritornare! [ Canessa Carlo (1889-1916) - Figlio di Giulio Cesare, era nato a Livorno il 27 agosto 1889. Morì in combattimento sul Medio Isonzo il 12 agosto 1916. Sottotenente del 97° Regg. Fanteria, fu decorato di Medaglia d'Argento al V.M. - da: LIVORNO NELLA GRANDE GUERRA di Carlo Antoni editrice "Il Quadrifoglio"]

domenica 9 settembre 2007

---2°---

La mattina successiva, 10 Agosto, per un tentativo di attacco alla quota 174, la nostra Compagnia si portò a prolungare la fronte di un'altra del I Battaglione che si tratteneva aggrappata ai profondi reticolati ancora intatti della nuova posizione nemica. La Compagnia in questo spostamento si trovò più volte esposta al fuoco del nemico annidato in un bosco che dovemmo fronteggiare e in parte attraversare. Gli uomini del mio Plotone il 4°, dovettero, a un certo momento gettarsi a terra per sfuggire il più possibile al fuoco intenso che ci avvolgeva. Avevamo infatti la impressione di essere circondati, perchè la fucileria nemica scoppiettava intensa da ogni parte. Sull'argine a cui eravamo addossati, si vedevano evidenti gli effetti del tiro: la terra colpita dalle pallottole saltava in aria investendoci. Non ritenni doverci fermare più oltre, anche per evitare il pericolo di perdere il collegamento con la Compagnia e rimanere isolati. Confesso che ciò fu per me, modesto comandante di Plotone, una delle eventualità che più mi preoccupavano in quei giorni, in cui, necessariamente, dovevano avvenire nei nostri reparti frequenti e veloci spostamenti di linea. La Compagnia, compiuto miracolosamente senza perdite questo spostamento, venne a trovarsi contro l'argine di un torrente che scorreva sotto la parte bassa della quota, esposta così al fuoco delle mitragliatrici sui due fianchi scoperti e con d'innanzi i trinceramenti nemici, completamente blindati, dominanti. Un soldato del mio plotone, De Marchi,cadde subito ferito alla testa e rimase pure ferito gravemente da pallottola esplosiva, di cui molto usava il nemico contro ogni convenzione internazionale, il Caporale Paccara. Il fuoco si intensificava sempre di più. Il mio Capitano Claudio Visin, piemontese valorosissimo ufficiale in S.A.P e già reduce dalla Libia, tenne con me, che ero il suo subalterno più anziano, un breve consiglio sul da farsi data la trgicità del momento e considerando la situazione nostra insostenibile. Venne tempestivamente l'ordine dal Comando di sgombrare i reticolati nemici per dare modo ad una batteria di bombarde di eseguire tiri di distruzione sui reticolati medesimi., e4 di riportare quindi la Compagnia sulla posizione di partenza. Si presentava allora una nuova difficoltà perchè dovevasi riopercorrere un ripida salita per un lungo tratto dell'altura fronteggiante le posizioni del nemico ormai in allarme e quindi esposti al tiro delle sue mitragliatrici. Fu stabilito che il reflusso dovesse avvenire a soli due soldati alla volta, ma, malgrado le precauzioni, il nemico accortosi dekl nostro movimento, cominciò a concentrare un intenso fuoco di mitragliatrici e di bombe a mano proprio sotto i reticolati dove dove stava la Compagnia. Durante il ripiegamento alcune truppe nemiche erano penetrate nel bosco e fu così che un mio collega, comandante del 3° Plotone, S. Tenente Turrini, rimase prigioniero. Nessuno allora se ne accorse ed anzi debbo dire che al nostro ritorno sulle posizioni di partenza, preoccupato della sorte di lui, che poteva essere rimasto ferito e quindi nella impossibilità diseguirci, mi offersi di ritornare nella notte a farne ricerca con una nostra pattugliaM; ma il mio Capitano ritenne che ciò non potesse farsi senza grave pericolo per noi e non acconsentì alla proposta. Fu dato disperso e solo molto tempo dopo si seppe della sua cattura.
Per trasportare il povero Caporale Paccara che, sebbene medicato alla meglio della sua grave ferita alla gamba, era in pietose condizioni, fu necessario improvvisare una barella servendosi all'uopo della giubba del soldato De Marchi ucciso e di due fucili. A sera inoltrata eravamo di nuovo, sopportando disagi inauditi e superandogravi pericoli, sulla posizione del mattino. La notte stessa e la notte successiva dell'11 agosto, la Compagnia cooperò in prima linea, sempre di fronte alla quota 174 Ovest, a respingere forti contrattacchi nemici.